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Immagine del redattoreAraldi del Vangelo

La sublime conquista dell’apice del dolore


Sacro Cuore di Gesù - Chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione e dei Martiri Inglesi, Cambridge (Inghilterra)

Nella sua Passione, Nostro Signore Gesù Cristo attraversò tutte le forme e i gradi del dolore, e vi entrò senza esitazione, con passo dignitoso, sereno e fermo, camminando verso la Croce come un re si dirigerebbe al trono della sua incoronazione.


Quando analizziamo ogni fase della Passione, sia fisica che spirituale, notiamo che nulla è stato risparmiato a Nostro Signore. Egli entrò nell’abisso più profondo del dolore con passo da eroe, assunse tutti i patimenti possibili e Si presentò splendente di sofferenza davanti alla giustizia del Padre Eterno. E così salvò il genere umano.


È interessante esaminare, punto per punto, il calar della notte, l’“Ufficio delle tenebre” dentro Nostro Signore, considerato sul piano della sua santissima umanità.


Il clamore della folla, primo passo verso il patibolo


Nel primo anno della sua vita pubblica, Gesù ebbe la gioia, il successo, la corrispondenza d’amore delle moltitudini del popolo eletto che accorrevano a Lui. Tuttavia, sapeva che tutto questo – ed è qui che nasce l’amarezza – si sarebbe tradotto in un numero esiguo di conversioni e avrebbe provocato i farisei a decidere la sua morte.


Se Nostro Signore avesse avuto molti meno seguaci, forse non sarebbe stato ucciso. Lo uccisero a causa del successo di quel primo anno. E nelle folle che Lo adoravano, Egli vedeva il successo come il primo gradino della scala che Lo avrebbe portato in cima al patibolo. Gli Apostoli e le altre persone non se ne rendevano conto, ma Lui sì.


Ancor di più. Il Redentore vedeva questo, quello, quell’altro nella pienezza momentanea della vocazione, della gioia, la cui bellezza d’animo Lo incantava. Tuttavia, Egli sapeva che uno di loro Lo avrebbe lapidato, un altro Lo avrebbe abbandonato, un altro ancora Lo avrebbe calunniato, avrebbe riso mentre Lo denigrava, insinuando che quella calunnia fosse vera. Nostro Signore era consapevole di tutto questo e perciò sopportava l’enormità di questi tormenti.

Durante tutta la sua vita pubblica, Nostro Signore già soffriva, nel profondo del suo Cuore, per la previsione di tutto ciò che avrebbe dovuto patire nella Passione

Ho l’impressione che le calunnie abbiano cominciato a diffondersi solo dopo che il Sinedrio aveva fatto un certo lavoro su coloro che Lo seguivano, rendendo tiepidi alcuni e mettendone altri contro di Lui, in modo che quella folla apparisse fiacca e disunita. E Gesù vide il crepuscolo del lassismo tramontare, man mano che il numero dei miracoli aumentava.


La resurrezione di Lazzaro: apice delle meraviglie e sentenza di morte


Nel secondo anno, quando aveva accumulato il castello delle sue meraviglie, Nostro Signore entra in una sorta di duello con il lassismo, perché la folla cerca di sfuggire dalle sue mani. Egli cerca di trattenerla facendo meraviglie più grandi. E si trova di fronte a questa situazione umanamente insolubile: quanto più Egli opera meraviglie, tanto più la folla diventa insensibile e indifferente.


Uno del popolo potrebbe commentare: «Ha resuscitato un morto; è l’ultima che ha fatto?» E riderebbe come uno che dice: «Ne ho abbastanza di questo, voglio tornare alla mia piccola vita. Meraviglie, allontanatevi da me; voglio la banalità!». E quando portò i suoi miracoli al culmine, nella resurrezione di Lazzaro, Gesù venne a conoscenza della sentenza di morte, seppe che avevano deciso di ucciderLo. Egli sapeva tutto e quando andò a casa di Lazzaro per festeggiare la sua risurrezione, in realtà stava celebrando la morte, perché la risurrezione di Lazzaro fu l’inizio della Sua morte.


Non so se vi rendete conto di quanto tutto questo sia toccante dal punto di vista della tristezza. Per usare un’espressione sbagliata, ma che significa un po’ quello che voglio dire, avvelenava, introduceva il sapore amaro nelle più legittime e splendide gioie.


Immaginate l’atmosfera che si respirava nella casa di Lazzaro, dove Gli piaceva stare, subito dopo la sua risurrezione. Gli Apostoli, la famiglia di Lazzaro, persone del posto che venivano, Lo adoravano. Nostro Signore sapeva che la maggior parte di quelle manifestazioni non avrebbe portato a nulla. Ed Egli, per il bene di quelle anime, mangiava al banchetto e Si rallegrava. Nel contempo, nel profondo del suo Cuore, piangeva perché capiva cosa stava accadendo. Questo episodio da solo costituirebbe un dramma di livello mondiale.


Egli dovette sentire anche la reazione di coloro che erano lì: non era la stessa di un tempo, ad eccezione della Madonna e di alcune Sante Donne.


Gli eventi si succedettero e Gesù ottenne un trionfo la Domenica delle Palme; tuttavia, sentiva l’alito di questo trionfo. In altre parole, il popolino voleva acclamarLo, ma non in termini di rottura con i farisei. Sperava che questi Lo intronizzassero ma, se non l’avessero fatto, il popolino li avrebbe seguiti. E prepararono per Nostro Signore quella commemorazione – la festa dell’ingenuità, non dell’innocente, ma del molle, così differente da quella dell’innocente. E Gesù, passando in mezzo a quegli osanna, sapeva perfettamente cosa sarebbe successo dopo.


La losanga del dolore


In tutti questi passi – va detto subito – impressiona notare Nostro Signore soffrire quel dolore per disegno del Padre Eterno e non solo permettendo che la sofferenza si abbattesse su di Sé, ma andandole incontro. Gesù stava sprofondando nel punto più basso, più terribile della losanga del dolore.

Nostro Signore Gesù Cristo non solo permise che la sofferenza si abbattesse su di Sé, ma andò incontro al dolore a testa alta

La vita umana può essere paragonata a una losanga a due punte: quella inferiore, il dolore; quella superiore, il gaudio. Nostro Signore scese nelle profondità della losanga del dolore in ognuno di questi casi concreti, con una probità, un’integrità e una obbedienza che ricordano l’«Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum» (Lc 1, 38).1 Egli andò fino in fondo, a testa alta, nell’atteggiamento che vediamo nella Sacra Sindone. È così che Gesù camminò.


Ciò diventa più toccante il Giovedì Santo, quando si celebra il culmine della Sua opera. Il Divin Salvatore istituisce la Messa, l’Eucaristia, il Sacramento della Penitenza e con esso l’edificio della Chiesa è, in un certo senso, completato.


Il popolo ebraico era tutto in festa, commemorando il passaggio del Mar Rosso, la Pasqua. E Nostro Signore, in questo clima di gaudio generale, vedeva certamente gli Apostoli partecipare a quella gioia. Egli festeggia e porta a termine la sua opera senza svenire. Possiamo ipotizzare il misto della sua gioia e della sua tristezza, perché sapeva che di lì a poche ore sarebbe iniziata la grande tragedia.


Immaginiamo la tristezza del Redentore che lava i piedi a Giuda, a San Pietro, a San Giovanni, pensando a cosa avrebbero fatto in seguito. Poi immaginiamoLo mentre distribuisce l’Eucaristia e passa ad avere Presenza Reale in ognuno di loro, così miseri, così al di sotto del compito… San Pietro, il Principe della Sua Chiesa, avrebbe fatto quello che ha fatto!


Inflessibilità del Padre Celeste


Una volta terminata la festa, tutti i dolori, grandi e piccoli, confluirono. Iniziò la terribile agonia, nella quale Egli ebbe la rappresentazione di tutto ciò che sarebbe accaduto e, nella sua intelligenza, nella sua Anima santissima, lo volle con una tale integrità che soffrì la sproporzione tra il dolore che stava arrivando e le forze che possedeva. Si sentì schiacciato. Nonostante questo, fece un atto di sottomissione. Sudò sangue e chiese al Padre Eterno: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!» (Lc 22, 42).


Santissimo Cristo della Misericordia – Siviglia (Spagna)

Nostro Signore possedeva una forza divina che non ha nulla in comune con la debolezza; aveva, però, l’apparenza della debolezza. Egli disse: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà», come chi intuiva o conosceva che la volontà del Padre Celeste aveva delle inflessibilità. Gesù stava andando a sbattere contro una di esse che Lo avrebbe schiacciato. Un Angelo viene e Gli dà una forza che non era una consolazione per soffrire meno, ma una capacità di soffrire di più. C’è, allora, l’abbandono degli Apostoli e tutto ciò che conosciamo.


Ad ogni passo, vediamo l’orrore che raggiunge l’inimmaginabile. Egli entra in quell’orrore, Se ne riveste e beve il calice del dolore. E questo ad ogni minuto. Per esempio, Gli tolgono la tunica, che in alcuni punti è tutta intrisa di sangue secco e quindi attaccata alle ferite. Quando è il momento di toglierla, una lacerazione indicibile! Sono sicuro che un uomo, senza le forze che Egli ebbe, sarebbe impazzito e sarebbe morto di dolore.


Questa tunica presumibilmente fu gettata a terra e il Sangue Prezioso cominciò ad asciugarsi lì. L’hanno presa a calci, ci hanno sputato sopra, l’hanno calpestata. Deve essere successo l’inimmaginabile. Ora, nell’insieme di tormenti che Egli ha subito, questo è un nulla.


In ognuno di questi passi avvenne quanto di peggio fosse prevedibile. Egli li compì nella loro interezza, senza un minuto di ritardo. In nessun istante della Passione il Redentore chiede di avere pena per Lui e di ritardare un po’ per poter respirare.


Persino il Padre Eterno e lo Spirito Santo Lo abbandonarono


Quando cadde sotto la Croce fu perché le forze Gli vennero meno. Appena poté, Si rialzò e continuò, soffrendo tutto con una serenità unica, come se non stesse patendo nulla.

La natura umana del Redentore rimase nella notte più completa e più oscura fino al gemito finale, privandolo di qualsiasi consolazione

Nostro Signore fu costretto a questa azione atroce di camminare portando la propria Croce fino al luogo in cui il supplizio avrebbe raggiunto il suo apice. In altre parole, ogni passo fatto non era per la propria liberazione. Perché se Gli avessero detto: «Se sali su questa collina, in cima sarai libero», si sarebbe sentito sollevato. Al contrario, i suoi aguzzini sembravano dire: «Sali su questa collina e quando arriverai in cima avrai la peggio. Adesso cammina!». Egli sale e subito dopo inizia la crocifissione.


Si ha l’impressione che questo non sia nulla rispetto a ciò che venne dopo, cioè tutto il lungo processo mortale della crocifissione. Avrebbe potuto morire di apoplessia in qualsiasi momento. No. Gesù non bevve il calice della morte in un sol sorso, ma goccia a goccia, assumendone tutto il sapore. Si sentì morire millimetro dopo millimetro, essendo ognuno di essi una piccola morte.


Nostro Signore superò ogni millimetro fino alla fine, e volle che il mondo sapesse che Egli non ebbe alcuna consolazione nel suo ultimo gemito. Persino il Padre Eterno e il Divin Spirito Santo Lo abbandonarono.


L’umanità santissima di Gesù fu abbandonata. La divinità – unita ipostaticamente alla sua umanità – si chiuse per Lui. E la natura umana del Redentore rimase nella notte più completa e più oscura, al punto da strappare quel grido indicativo di due bellissime realtà, la tremenda pregnanza del dolore e tutta la forza che ancora rimaneva in quell’Uomo: «Iesus autem iterum clamans voce magna”, e poi “emisit Spiritum» (Mt 27, 50).2


È l’apice del dolore, previsto e accettato da lontano grazie alla preparazione dell’Anima per questo.


Il parossismo del dolore


Per fare una meditazione su Nostro Signore Gesù Cristo bisogna prendere in considerazione tutti questi aspetti.


Concretamente, consiste nel comprendere qualcosa di paradossale: questa vita è la più terribile che si possa immaginare, è durissima, ma la persona ha forze, tranquillità, stabilità e pulizia dell’anima che sono già, su questa terra, per lo meno qualcosa del centuplo di quello che andrà a ricevere nell’altra.


Il dolore verso cui la persona cammina con passo deciso in qualche modo diminuisce. Quando lo schiviamo, esso cresce nella misura in cui fuggiamo da esso. Di conseguenza, diventiamo sempre più piccoli e, al momento di farci a pezzi, non siamo più nulla.


Quanto più l’individuo prevede il dolore da lontano, tanto meno farà male. E la vera ascesi consiste nella lunga previsione, mettendosi nelle mani della Provvidenza. Non c’è altra strada. E, paradossalmente parlando, abbiamo lì il nostro calice dell’Orto degli Ulivi, cioè il liquido che ci dà forza. Questo presuppone di non dire: «Nell’ora del dramma, sarò un eroe», ma «nell’ora del drammuccio, sarò un eroe». Anche nelle piccole cose della vita quotidiana dovrò essere un eroe.


Tuttavia, queste considerazioni non comportano la seguente conclusione: ogni volta che si presenta la prospettiva di un dolore per noi, non dobbiamo chiedere che venga rimosso. Al contrario, la preghiera può distanziare le sofferenze da noi. Così come la Provvidenza non solo permette, ma vuole – e la dottrina della Chiesa incoraggia – che diminuiamo i dolori delle anime del Purgatorio, così, poiché molte persone ricevono una parte di questo tormento sulla terra, è legittimo pregare che ne siano liberate. E molte volte la Provvidenza le libera in modo misericordioso.


Il ruolo della fiducia


Anche così, c’è un sottinteso in quello che sto dicendo. In primo luogo, l’aiuto della Madonna affinché riusciamo ad avere le forze. Non credo che qualcuno, senza l’aiuto della Santissima Vergine, possa riuscirci. Poi, le adorabili arrendevolezze di Dio, ancor più quando si supplica come intermediaria Sua Madre, la gloriosa intercessio Beatæ Mariæ Virginis. E si possono ottenere cose sorprendenti, ma rimane sempre questo punto: un’inesorabilità può scendere su di noi.


Se vogliamo meditare con serietà sulla Passione, troviamo questo. E, per quanto riguarda la Madonna, non è possibile immaginare che a una semplice creatura sia chiesto tanto quanto è stato chiesto a Lei.


Il Dott. Plinio nel 1983

Immaginate la cura e l’affetto della Vergine Maria per Gesù in quanto bambino, poi come ragazzino, con quale affetto ricamò la sua tunica inconsutile! E quel Corpo che la Madonna aveva tanto amato, quell’Anima che Ella aveva cercato di colmare di consolazioni – e sapeva di averlo fatto – si ritrovava in quel mare di tormenti. Era in sintonia con l’inesorabile volontà di Dio e volle che Gesù morisse.


Non abbiamo idea di cosa questo significhi. Se dovessimo sentirne un pizzico in noi, moriremmo di dolore.

È necessario camminare con passo deciso verso la croce, confidando nell’aiuto della Santissima Vergine e sperando di ottenere la vittoria

Il ruolo della fiducia è molto bello in questo punto. È la virtù con cui, in modo misterioso, distinguiamo ciò che non è inesorabile e riusciamo a far recedere il dolore in qualcosa. D’altra parte, la fiducia è così potente che, credo, anche un po’ dell’inesorabile stesso a volte si ritira.


È una cosa curiosa, ma confidiamo che non ci vengano a colpire i dolori che sentiamo non esserci normalmente nel nostro cammino. Ognuno di noi ha una nozione confusa sul cammino dei nostri dolori. Sentiamo anche quando ci scontriamo con l’inesorabile stesso. E allora la fiducia cambia nome e si chiama rassegnazione. Tuttavia, la cosa più terribile accade quando arriva la prova assiologica,3 perché la persona perde la nozione dell’esorabile e dell’inesorabile.


Questa è una meditazione sincera sulla Settimana Santa. Vale anche la pena dire che dietro a tutto questo ci sono le glorie e le speranze della Risurrezione. Quante cose nella nostra vita hanno preso la forma della risurrezione! E soprattutto verrà la risurrezione finale per tutti noi. Non si tratta, quindi, di un orizzonte opprimente.


Le parole di Nostro Signore in cima alla Croce – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46) – sono l’inizio di un Salmo che profetizza la Risurrezione e la vittoria. 


Estratto, con adattamenti, da: Dott. Plinio. San Paolo. Anno XXV.

N.289 (aprile 2022); pp.9-15


Note

1 Dal latino: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».

2 Dal latino «Gesù, emesso un alto grido, spirò”.

3 Secondo il Dott. Plinio, la parola assiologia – che deriva dal latino axis asse- e i suoi derivati si riferiscono sempre all’“asse” che deve guidare la vita dell’uomo, cioè il fine per cui la persona è stata creata e la sua vocazione specifica, attorno alla quale devono ruotare tutte le sue idee, le sue volizioni e le sue attività.

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